Il nuovo corso
Bompiani, Milano, 1959

Quarta di copertina della prima edizione
In un paese a regime totalitario, una piccola città di provincia è messa una mattina a rumore: i giornali vi diffondono la notizia del ritorno alla più completa libertà. I cittadini vivono così ventiquattro avventurose ore, ignari che il resto del paese è affatto all’oscuro della novità. Da questa invenzione prende le mosse Il nuovo corso, un romanzo impegnato in un amaro e attuale discorso sulla libertà, ma al tempo stesso svolto sul filo duna fantasia imprevedibile e singolare, tutta scatti e finezze, tutta trovate inaspettate e felici. Basilio, il giornalaio che s’appassiona alla libertà e di questa passione diventa il grottesco eroe e la patetica vittima, conduce il giuoco, ma ne è a sua volta trascinato. E con lui, protagonisti attoniti vengono coinvolti e trasformati tutti gli altri personaggi, la delegazione cinese, l’operaio di via del Progresso, il primario dell’ospedale che vede crollare la sua utopia, Alessio & C., l’accattone Lazzaro, il direttore del carcere. I personaggi sono, com’è ovvio, altrettanti simboli, ma anche figure estremamente concrete, che l’autore investe volta a volta con la sua ironia e la sua compassione. E che quasi con rimpianto lascia, dolenti o sbalordite, alla fine dell’eccitante avventura. Sorridente insieme e pensoso, scritto in una prosa in qui la scioltezza fa tutt’uno con la densità, Il nuovo corso conferma, dopo le prove positive de L’uccello nella cupola e de II testimone, le doti che hanno messo Mario Pomilio in prima fila fra i narratori rivelatisi negli ultimi anni.

Risvolto della riedizione a cura e con postfazione di Mirko Volpi, prefazione di Alessandro Zaccuri, con una lettera inedita di Mario Pomilio, Hacca, Matelica, 2014
I fatti d’Ungheria sono l’evento concreto, di un’attualità ancora irrisolta e bruciante, a partire dal quale Mario Pomilio redige la “favola politica” del Nuovo corso. L’eco della repressione sovietica, nella Budapest del 1956, non si è ancora spenta e quel titolo (che riprende alla lettera il fallimentare esperimento libertario) non poteva essere in alcun modo equivocato dai lettori dell’epoca, né suscita dubbi in quelli odierni. Eppure qualcosa che non torna c’è. A non coincidere, tra modello e racconto, non è tanto la concatenazione dei fatti, rispetto ai quali il narratore rivendica un’assoluta licenza creativa. Il paesaggio, ecco che cosa non combacia: la geografia urbana che fa da sfondo al racconto. Quella città in cui stiamo per addentrarci «potrebbe essere stata o diventare domani la nostra città». Sono le parole a fare dell’edicola di Basilio il solo vero “luogo” del romanzo. Qui, all’alba del giorno fatale che copre quasi per intero la trama, arrivano le copie del quotidiano con l’annuncio del «nuovo corso»: la libertà smette di essere uno slogan e diventa qualcosa di concreto, le istituzioni cedono il passo alla spontanea aggregazione dei cittadini, perfino il Partito si scioglie, considerando ormai esaurito il proprio compito. Non è vero, ma Basilio e i suoi concittadini non possono saperlo, perché il piano (forse un sabotaggio, forse una provocazione decisa a freddo dalle autorità centrali) è stato studiato con astuzia. Libertà, verità, fuoco: è la sintesi del percorso compiuto da Basilio che, all’indomani della sua giornata di gloria, quando ogni illusione si è rivelata vana, decide di dare alle fiamme le copie del quotidiano – autentiche, questa volta, non più contraffatte – in cui si sancisce la permanenza dello status quo. I ritagli si accartocciano, la colla non tiene più. Basilio entra nel sacrario profanato. «Riapparve dopo un attimo di là dalla vetrina, e per un po’ sembrò che le fiamme non osassero toccarlo. Poi ne fu avvolto quant’era grande, e subito scomparve».
Alessandro Zaccuri