Una lapide in via del Babuino
con un saggio di Giancarlo Vigorelli
Rizzoli, Milano, 1991

Risvolto della prima edizione
Una lapide, allo stato in cui è rimasto aperto sul suo tavolo di lavoro, non può presentare, come si proponeva, le vite parallele dello scrittore e del principe; e anche se le lascia indovinare, risulta preminente il ritratto, il multiritratto dal profondo di un Pomilio disperatamente credente che si è appena lasciato alle spalle l’ombra a tutto campo del Manzoni: che tuttavia non oscurava anzi illuminava il discepolo romanziere; e l’uno e l’altro, alla fine e quasi alla pari splendono come due ravvicinate anime notturne, avvalendosi entrambe della magica verità di Pomilio… Pampaloni nella esatta e sensibilissima scheda che dedica a Pomilio nel secondo volume su Il Novecento della garzantiana Storia della Letteratura Italiana (1987) privilegia Una lapide per la sua estrema qualità e proprio per questo gioco di luci e d’ombra, gioco notturno dove è rimpianta ma anche è ritrovata la prima alba «d’essere stato felice senza saperlo»… Su questo ardente giudizio, ed è inutile dire quanto lo condivida, dovrei chiudere con soddisfazione queste mie circo-stanziate domande e risposte sul racconto-romanzo postumo di Pomilio. E mentre lui, pur nella fede ferita, se n’è andato verso il cielo notturno suo e del suo Manzoni (un «Manzoni fraterno a Dostoevskij», suggerisce ancora Pampaloni), e Dio senz’altro avrà premiata la sua torturata pietà riversata sull’Uomo; l’altro, il principe — davvero interrotto — è rimasto là, come l’ultima volta l’aveva veduto il suo evocatore.
Giancarlo Vigorelli

Quarta di copertina della riedizione con introduzione di Silvio Perrella, Avagliano, Cava de’ Tirreni, 2002
Uno scrittore anziano scopre in un suo vecchio quaderno d’appunti l’abbozzo di una possibile storia. Una storia che non ha trovato la sua forma e non è diventata un libro. Lo stimolo era venuto da una lapide posta sulla facciata di un palazzo romano, che ricorda il soggiorno nella città eterna di Girolamo Napoleone, “il cugino di Napoleone III e suo braccio destro ai tempi del Secondo Impero, venuto a finire i suoi vent’anni d’esilio a pochi passi di lì, in un vecchio albergo di via del Babuino”. Lo scrittore ripensa a quella storia e ne ha una duplice sollecitazione, oscillante tra il suo vissuto presente e la possibilità di farlo risuonare nella vita letteraria del suo larvale personaggio.